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Trento, 6 settembre 2011
MINO MARTINAZZOLI: UN POLITICO ATIPICO
di Marco Boato
da l’Adige di martedì 6 settembre 2011

La scomparsa di Mino Martinazzoli - arrivata in modo sereno domenica 4 settembre, nella sua casa vicino a Brescia, dopo una malattia che lo aveva indotto a prepararsi coscientemente alla morte in arrivo – è stata accolta da giudizi unanimemente positivi sulla sua figura umana e politica. Non succede spesso, in questa stagione di crisi della politica e della sua credibilità, oltre che di dileggi e dilacerazioni quotidiane. Persino “il Giornale” berlusconiano, sia pure con la penna sempre pungente di Giancarlo Perna, lo ha salutato criticamente, ma con rispetto: “In punta dei piedi come ha vissuto, se n’è andato a 79 anni Mino Martinazzoli”. E l’articolo, pur graffiante, si conclude così, dopo aver ripercorso la sua vita e le sue scelte: “Tutto sommato, un buon bilancio”.

Sulla sponda opposta, dalle pagine de ‘l’Unità’, con queste parole lo ricorda Pierluigi Castagnetti: “Con Martinazzoli scompare uno dei protagonisti più intelligenti della vita politica italiana”. L’antico amico e compagno di cordata nelle vicende democristiane e popolari usa nei suoi confronti espressioni autentiche: “In effetti Martinazzoli è stato un personaggio atipico nel panorama politico, per molti aspetti un anti-personaggio, che non amava l’esposizione televisiva, la insostenibile leggerezza del pensiero, le semplificazioni forzate, il crescente divario tra etica e politica”.

Quest’uomo, che aveva pur percorso tutto il curriculum istituzionale – dal Comune alla Provincia, dal Senato alla Camera, dal ministero della giustizia a quello della difesa e poi delle riforme istituzionali, per poi tornare in Comune come sindaco di Brescia e arrivare nella Regione Lombardia al termine del suo itinerario politico -, aveva davvero conservato per tutta la sua vita un linguaggio assolutamente estraneo al “politichese” e a qualunque forma di gergo ideologico, amando invece le metafore, i paradossi, le frasi non scontate, le allusioni fantasiose, le provocazioni intellettuali: “La forza del destino è il destino della forza”; “La solitudine dell’amore è talvolta l’amore della solitudine”.

Quando ancora sperava in una nuova prospettiva per il suo partito, la Dc, nel congresso del 1989 (l’anno della caduta del muro di Berlino e in realtà dell’inizio della crisi presto irreversibile) arrivò ad esclamare: “Noi non vogliamo un futuro di ritorno, ma vogliamo il ritorno al futuro”  L’anno dopo, nel 1990, col settimanale “Famiglia cristiana” si esprime già in modo più problematico: “Credo solo che nella Dc di oggi, per quanto integrati negli apparati, coinvolti nelle convenienze, per quanto ottusi in questo barocco della nomenclatura, ci sia ancora una potenzialità di futuro”. Tutti quei “per quanto” erano già il segno linguistico della consapevolezza della crisi incipiente, che sarebbe esplosa nel giro di due anni e che lo avrebbe portato a diventare segretario nazionale del suo partito nel 1992, per poi condurlo drammaticamente allo scioglimento definitivo nel 1993.

Paolo Franchi, sul “Corriere della sera”, ha anche rievocato - subito dopo la fondazione del nuovo Partito popolare italiano (sulle orme tardive di Luigi Sturzo), nel pieno della dilacerante crisi politica e istituzionale del 1993 (l’anno del referendum del 18 aprile sulla legge elettorale, che portò poi alla nuova legge Mattarella, a cui ora si cerca giustamente di ritornare con un nuovo referendum) - i rapporti che ci furono con Silvio Berlusconi, non ancora determinato a “scendere in campo” in prima persona, come poi fece. Martinazzoli rifiutò allora la proposta di alleanza con queste parole, che dicono tutto della sua personalità umana e politica, nonostante incertezze ed anche errori che non mancarono: “Vincere non vale a nulla, se l’anima è il prezzo della vittoria”. E in epoca recente, rievocò quegli incontri con queste icastiche parole: “Una volta, nel ’94, incontrai Berlusconi, e cercai di spiegargli che fare politica significa fare gli interessi degli altri, non i propri”.

Martinazzoli era un uomo politico (se pur non abbandonò mai la sua professione di avvocato penalista, che lo portò anche ad essere difensore di parte civile nei processi per la strage di Brescia del 28 maggio 1974), ma non fu un uomo di potere, semmai in alcune fasi fu uomo di Stato. Per questo, riuscì a riflettere anche auto-criticamente sul proprio difficile percorso in quella crisi della prima metà degli anni ’90, quando allo scioglimento della Dc fece seguito la nascita del nuovo Ppi. Qualche anno dopo, infatti, svolse questa auto-analisi spietata in un’intervista: “Non fummo tempestivi nel considerare che la fine del comunismo in Europa chiudeva, in Italia, una fase storica, quella della Dc condannata a governare. Molti, apprendendo che non si trattava di una condanna all’ergastolo, diventarono malinconici e pretesero di replicare, artificialmente, un passato che non c’era più. Per me, io pensavo che se ci avessero assistito generosità e coraggio, avremmo potuto essere, nella nuova stagione politica, di più noi stessi, meno il nostro potere e di più il nostro progetto. Anche la scelta di evocare la sigla del Partito popolare di Sturzo, all’inizio del ’94, si ispirava a quel proposito. Ma era ormai troppo tardi. Non fummo capaci, in un contesto sempre più reattivo, di convincere gli italiani che le nostre ragioni erano di più dei nostri torti”.

Nell’ultimo decennio – dopo essere stato nella seconda metà degli anni ’90 sindaco di Brescia – Martinazzoli nel 2000 ha tentato di contrapporsi a Formigoni per il governo della Lombardia, ma, una volta sconfitto, non ha abbandonato il campo regionale, come altri hanno fatto in circostanze analoghe (basti pensare alla Finocchiaro dopo la sconfitta in Sicilia) ed è rimasto a fare il consigliere di opposizione. Pur sempre collocato nel centro-sinistra (era stato un precursore dell’alleanza ulivista di Prodi), non condivise lo scioglimento del Ppi nella Margherita di Rutelli, né seguì il percorso successivo che portò al Partito democratico (Franchi sul “Corriere” cita una sua critica corrosiva: “Invece di buttare l’acqua sporca e tenersi il bambino, hanno buttato il bambino e si sono tenuti l’acqua sporca”).

In realtà, per tutta la sua vita Mino Martinazzoli è stato al tempo stesso un “cattolico liberale” di impronta manzoniana (Gianfranco Spadaccia, a Radio radicale, ha rievocato anche la figura del Fogazzaro) e un “cattolico democratico”, sulle orme di Aldo Moro e di Benigno Zaccagnini. Personalmente ho avuto molte occasioni di “incrociarlo” e incontrarlo nella sua e mia vita parlamentare, nel suo ruolo soprattutto di ministro della Giustizia a metà degli anni ’80, ma anche nella fase successiva alla sua (e più tardi mia) uscita dal Parlamento. Avevamo percorsi politici diversi, ma una grande sintonia culturale e politica, starei per dire anche spirituale: fede cristiana, ma piena laicità nell’impegno politico, oltre che grande rispetto per le regole e le garanzie dello Stato di diritto (ormai sempre più disconosciuto). Negli ultimi anni aveva preso le distanze dalla politica “militante”, ma aveva continuato a “militare” con la sua cultura ricchissima, con la sua grande umanità, con la sua purezza di cuore. Per questo lascia in chi l’ha conosciuto, l’ha stimato e gli è stato amico, un senso di vuoto e di grande nostalgia per quest’uomo, meglio, per questo galantuomo, che non c’è più.

Marco Boato

 

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